Sono trascorsi dieci anni dalla morte del cardinale Carlo Maria Martini avvenuta il 31 Agosto 2012 all’Aloisianum, Istituto Filosofico dei Gesuiti, a Gallarate e vent’anni dalla conclusione del suo episcopato nella Diocesi di Milano.
Il biblista Martini, figura molto amata, lasciata la cattedra di Ambrogio visse, dal 2002 al 2007, nella città Santa per continuare ad approfondire i suoi studi. A sua eminenza Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, abbiamo chiesto un ricordo del Cardinale con il quale ha avuto una vicinanza nei suoi anni gerosolimitani.
Eminenza ha un ricordo particolare del Cardinale Maria Martini?
Lo incontrai la prima volta quando accompagnava un gruppo di diaconi della diocesi di Milano al Santo Sepolcro, ma si era perso per le viuzze della Città Vecchia di Gerusalemme. L’ho incontrato in seguito diverse volte e parlando con lui, mi colpiva la sua libertà nell’analisi della vita della Chiesa e della vita sociale di Gerusalemme.
Quali rapporti ha instaurato con i responsabili delle Chiese della città Santa?
Non aveva molti rapporti diretti con i responsabili delle Chiese, non perché avesse dei problemi, ma perché non voleva interferire nelle loro scelte. Partecipava a volte ai nostri incontri, ma sempre senza esprimersi molto. La sua era una presenza allo stesso tempo gradita e apprezzata, ma anche un po’ temuta. La sua reputazione e autorità incuteva un po’ di soggezione. Forse ne aveva coscienza e per questa ragione evitava, quando possibile, di essere troppo presente.
La presenza del Cardinale Maria Martini in Israele era una presenza manifesta o discreta?
Come già accennato, conservava uno stile piuttosto riservato, “low profile” si direbbe oggi. Non partecipava ai diversi eventi ecclesiali, perché sapeva che la sua presenza, in un contesto piccolo come quello di Gerusalemme, poteva forse diventare ingombrante. Aveva luoghi fissi dove era più facile incontrarlo, come il Santo Sepolcro e il Monte Tabor. Lo si trovava in quei luoghi abbastanza spesso. La casa dei Gesuiti a Gerusalemme era comunque il luogo dove risiedeva e dove lo si poteva incontrare. Aveva una vita semplice e viveva in una semplice stanza come qualsiasi altro religioso.
Fra i Frati della Custodia ed il Cardinale c’erano rapporti? Come si esprimevano?
I rapporti, come dicevo, erano soprattutto con i frati di alcuni luoghi santi, come il Monte Tabor e il Santo Sepolcro, ma non solo. Con i frati di quei luoghi aveva un rapporto molto familiare e i frati ormai sapevano come e quando il Cardinale sarebbe “apparso” per celebrare o pregare.
Il dialogo tra cattolici ed ebrei che il Cardinale Martini intraprese durante gli anni in cui fu Arcivescovo di Milano è continuato anche in Israele? Lei ha apprezzato questo suo impegno?
Si, certamente. Durante il suo soggiorno gerosolimitano, ha ottenuto diversi riconoscimenti pubblici dall’Università Ebraica di Gerusalemme e da diverse istituzioni israeliane. Il dialogo con il mondo ebraico, nelle sue diverse forme, gli stava a cuore, ed era ricambiato. Era vicino anche a diverse organizzazioni israeliane di carattere più laico e politico, come il “Parent Circle”, una organizzazione che riunisce ancora oggi genitori o parenti di persone – israeliane e palestinesi – uccise a causa del conflitto olitico in corso.
Qual è l’eredità lasciata dal cardinale Maria Martini ai cattolici e agli ebrei o ad altre confessioni religiose?
In un contesto lacerato e sfiduciato, quale è il nostro, Martini ci ricorda che è nostro compito non smettere di intercedere (verbo che usava spesso), di pregare, parlare e agire per costruire relazioni, nonostante tutto e di cercare tra i religiosi e credenti delle varie fedi, persone con le quali si possano costruire prospettive, serenamente e senza lasciarsi impressionare da quanti invece vogliono solo dividere. Non temere, insomma, ma avere il coraggio di sperare sempre anche per l’altro.
(crediti fotografici Terrasanta.net (Cardinale Carlo Maria Martini)